sabato 30 gennaio 2016

Allora pensiamo per un attimo che la verità che guida le nostre scelte, la nostra volontà, non sia relativa solo ad una logica di convenienza, ma sia iscritta nell'iperuranio secondo assiomi che alla fine sono quelle leggi eterne che da molto tempo ormai guidano ogni nostra etica morale. Come non uccidere, non fare ad altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi, onorare i nostri genitori, non rubare eccetera. Certo noi esseri umani non siamo dei santi, nessuno è esente dal commettere errori ed il perdono è senz'altro l'ingrediente insostituibile che dovrebbe sempre accompagnarci. Tuttavia in base a queste leggi e ce ne sono pure altre che non ho elencato, si fondano le civiltà più progredite. E queste leggi non sono dettate da una volontà totalmente umana, esiste una volontà che trascende secondo me noi uomini. Possiamo chiamarlo Dio cristiano, Buddha, o un altro dio secondo quella che ritengo sia quella religione universale umana, che da quando ha compreso che esiste la perfettibilità, l'infinitezza, ha percepito la sensazione che vi sia qualcosa di ulteriore la cui volontà riesce a non sbagliare mai, a non peccare mai direbbero i cristiani e per questo risultare una specie di padre per noi tutti uomini, un condottiero che desidera che l'uomo riesca a riscattarsi dalle pene di una vita la cui sopravvivenza non sempre si accorda con una morale infallibile.
Desidero fare questa introduzione perché mi viene in mente la volontà come la intende Schopenhauer. Egli parte da un Mondo dominato dalla quadruplice radice di ragion-sufficiente. Ossia il Mondo è dominato nel suo lato rappresentativo, ossia come appare ai nostri occhi descrivibile infallibilmente secondo i principi di causa ed effetto. Ed è indubbiamente sopra quelle fondamenta che si ergono le nostre scienze. Dalla matematica alla fisica. A priori noi uomini abbiamo tutte quelle intuizioni dello Spazio e del Tempo che ci permettono di comprendere cosa siano i numeri, l'estensione, il movimento. Secondo Schopenhauer la nostra migliore qualità è l'intuizione che dovrebbe secondo lui guidare ogni buon matematico o geometra con buona pace di Euclide. La ragione è necessaria per dare un senso logico a tutto, ricavare leggi attraverso processi induttivi, ma la deduzione in realtà fa capo ad assiomi il cui solo intuito, principi che a priori guidano noi uomini in questo mondo fatto di cause ed effetti di una realtà non in sé in quanto ciò che è al di fuori di tutto ciò che ci appare in virtù di questa sorta di nostra predisposizione, della quale io quasi aggiungerei che la stessa evoluzione di tutta la natura ha affinato, e ora sappiamo leggere questo Mondo salvo appunto ciò che è in sé e quindi ci è velato.
Schopenhauer ci dice come sia il filosofo il più interessato a questa realtà in sé che si diversifica ed è inspiegabile per ogni scienza in quanto al di fuori di ogni legge di causa ed effetto.
Un uomo quindi che nasce con un cervello che già è in grado di scorgere nell'ambiente circostante quel quid, in base alla forma, alle capacità che in milioni di anni si sono affinate e che ci dicono: "Io non sono solo in grado di imparare ma ho già a priori le capacità per poterlo fare". Un uomo mutato nel tempo, in milioni di anni, forse da quell'antico brodo organico iniziale, che osserva un mondo che da milioni di anni oggettivamente interagisce con ogni essere vivente e forse come direbbe Darwin ne causa la mutabilità e l'adattamento. Ma oggi a mutare velocemente è il mondo e lo fa più veloce dello stesso uomo. La volontà umana non sembra più essere un metro per poter indagare cosa vi sia dietro la nostra realtà apparente, la realtà in sé, in quanto il mondo sembra essere animato quasi da una volontà sua propria, affatto scollegato da quella umana, la volontà non sembra più la chiave di interpretazione di cosa vi sia dietro la rappresentazione che ci sta di fronte di tutto il mondo che ci circonda.
Il mutamento veloce è dato da una tecnologia che trasforma l'ambiente. Ma quest'ultima è stata inventata dalla volontà umana. Quindi quale sarebbe la volontà altra che si è impadronita del mondo e ci impedisce oggi di poterlo interpretare, di poter andare oltre l'apparente, per immaginarci una volontà quasi divina, ma in sintonia con la nostra volontà di uomini, uomini umani che non riusciamo ad uscire certo dalla nostra umanità che in fondo da sempre è in sintonia con quella spiritualità che accorda la volontà umana con quella divina e come insomma il vero principio, ciò che è dietro la realtà in sé, sarebbe la volontà, oltre, la rappresentazione del mondo.
La volontà ci sfugge e per questo ne siamo disorientati. Ma l'adattarsi al disorientamento non è possibile, in quanto ci porta verso una dimensione sconosciuta, ignota. Questa ad ogni modo è oggi reale, e quindi fa parte della realtà rappresentata ed è pure parte di quella in sé, ma non sembra più far capo ad una volontà umana. Cosa sarà mai?




 

sabato 24 ottobre 2015

Quel che penso quindi è che nemmeno la filosofia marxiana sia riuscita ad essere esaustiva nel risolvere le problematiche della società, in particolar modo non solo quella della seconda metà dell'800, ma pure quella moderna e oggi post-moderna. Ossia la critica dell'idealismo di Hegel, con annessa una critica di un materialismo che secondo Marx alla fine non faceva altro che ricondursi allo stesso idealismo. L'incapacità di sanare davvero tutte quelle contraddizioni che caratterizzavano l'epoca del filosofo, ma pure economista, sociologo Marx, in un periodo storico in cui già si affacciavano le problematiche dovute alla massificazione di una società che risentiva delle trasformazioni produttive, sempre più frenetiche e iniziatrici di quelle dinamiche finanziarie che oggi vedono la loro totale maturazione e forse pure decadimento.
Ora facendo un salto all'indietro, parliamo un attimo del IV secolo A.C ad Atene, culla della civiltà democratica dell'antica Grecia. In Atene questo fu un periodo di crisi e di disgregazione sociale, l'equilibrio della società era stato messo in crisi dalla guerra del Peloponneso, ossia quella guerra combattuta tra il 431 A.C e il 404 A.C tra Sparta e Atene. Essa si concluse appunto nel 404 A.C con la vittoria della Lega Peloponnesiaca che aveva a capo Sparta. Gli agricoltori erano stati mandati in rovina dalla guerra, dalla crisi economica, dalle ferite occorse in guerra, impoveriti si trasferivano in città con il conseguente aumento della disoccupazione urbana, e dei disordini sociali. In questo panorama di scarsa speranza per il futuro, Platone (428-348 A.C) con la sua filosofia tentava di risolvere tutta questa serie di problemi che venivano a crearsi in una città retta da un governo oligarchico costituito dai trenta tiranni, imposto da Sparta, che oltre ad aver ottenuto una vittoria militare, ora imponeva pure una sua visione socio-politica. Fu appunto in questo contesto che Socrate, amico di Platone, sottostando alle leggi della città, bevve la cicuta e accettò di morire, rimarcando quindi come per questo filosofo fosse indispensabile per il cittadino osservare principi e leggi che costituiscono verità che non posso venire continuamente destituite di significato da chi in quel periodo travagliato della storia greca, metteva in vendita la propria capacità oratoria, mettendola al servizio di chi meglio sapeva pagare ottenere con il soldo la propria verità che si contrapponeva inevitabilmente ad altre verità, leggi ad altre leggi. Ogni legge o verità diveniva opinabile e di questo erano particolarmente esperti i sofisti.
Platone e il suo amico Socrate sentivano l'esigenza, nella loro epoca storica travagliata, di ritrovare verità che non fossero verosimiglianze, illusioni, ombre della verità che luminosa risplende in quell'Iperuranio platonico dove solo chi riesce ad elevarsi allontanandosi dalle opinioni, dalle doxa, per raggiungere finalmente quei bastioni solidi che sono i valori, le leggi che sole possono costruire una società in cui la civiltà umana possa davvero esprimere tutte le sue potenzialità.
Ed oggi a tanti secoli di distanza da quando visse Platone e Socrate, in fondo noi uomini del 2000, ci facciamo le stesse domande, dal momento che tutto viene posto in discussione e più nulla sembra certo e gli stessi canoni che hanno guidato sino ad ora le moderne democrazie sembrano vacillare di fronte a tante contraddizioni, sofferenze di un mondo che l'uomo ha creato ma in cui non tutti riescono a sopravvivere.
Quindi quali medicine poter fornire all'umanità ammalata sotto quel giogo che essa stessa si è creata, ossia quei modelli economici, che lo stesso Marx, tentò di mettere in discussione ma che continuano a permanere in quanto non sembra vi siano modelli alternativi.
Una di queste sicuramente non può che essere l'onestà, l'empatia per il prossimo, la solidarietà e la compassione. Come asseriva Platone, oggi c'è un gran bisogno di Giustizia, di ciò che è buono per noi, ciò che era bello per i greci, era anche buono. Ritrovare quella spinta in noi stessi che possa darci la convinzione di uscire da una spirale senza né più capo né coda. Lo spirito di adattamento dell'uomo, lo spinge a vedere nelle difficoltà che esso stesso si pone innanzi l'unica via da attraversare e adattandovisi se ne pone altre uguali in un circolo vizioso sempre uguale. L'eterno ritorno dell'uguale, noi uomini urleremo di paura per questo, ciò che è stato è esattamente uguale a quello che c'è e ci sarà diceva Nietzsche, ma noi possiamo ritrovare la strada, dico io, uscire dal circolo vizioso e pensare di poter fondare una civiltà migliore, spostarci dalla dimensione atomica democritea per cui siamo vittime e cozziamo tra noi casualmente come tante vetture che attraversano una rotonda, salvo urtarci qualche volta, e invece una visione finalistica della vita per cui è giusto che chi vive possa pensare ad un futuro diverso dal passato.
In fondo molti filosofi che intravvedevano la crisi dei valori che oggi è all'apice, speravano in un ravvedimento delle politiche, dei governanti, delle cattedrali governative, nella speranza che le guerre finissero, che l'uomo capisse che la vera felicità non è masochisticamente inseguire il sogno ancestrale di una rivoluzione semidivina nei confronti di una Natura da piegare oltre che da conoscere a tal punto da scoprirne tutti i segreti, ma al contrario sentirsi già compiutamente parte di quella Natura e quindi non vederla più né oggettivamente e nemmeno soggettivamente ma quanto un tutto di cui noi siamo parte. E in questo tutto che è l'essere dell'esistente, noi viviamo ma abbiamo pure i nostri valori, leggi eterne che non sono semplici idee proiettabili nell'Iperuranio.
Le leggi sono quelle che ci permettono di esistere come uomini nella Terra senza farci del male l'un l'altro, avendo rispetto per noi stessi. Esse oltre che da una logica che ci fa comprendere come il male alla fine sia uno svantaggio, sono leggi morali ed etiche che hanno una tradizione antichissima forse più antica dei testi biblici le cui radici affondano nella storia dell'uomo.
Da quando l'essere umano capì cosa era la morte e quindi ebbe un senso di pietà e dolore che lo contraddistinse dagli altri esseri della Terra.
La sensazione quindi è che oggi Giustizia e Leggi ci sfuggano. Chi ci governa proclama le proprie buone intenzioni e spesso cerca di appianare le varie divergenze, ma più appiana più i corni divergono tra loro, si contraddicono, testimoniano la loro assurdità. C'è chi protesta e perora la sua causa, ma è tutto inutile, "nel 2016, il debito si ridurrà, ...nel 2017, le cose andranno meglio,...solo nel 2020 l'Italia riuscirà finalmente ecc.". Tutto sembra essere spostato in un tempo ulteriore che metafisicamente si staglia oltre un orizzonte che alla fine però ti mostra sempre un mondo esattamente uguale a quello che si è lasciato, se non peggiore.
Quindi ciò che è metafisico non è tanto la cosiddetta "ideologizzazione" di chi pretende ed è giusto che sia così, che la propria condizione di povertà possa mutare, ma è piuttosto metafisica chi insiste a posporre il raggiungimento di obbiettivi che come illusioni nel deserto non fanno altro che allontanarsi man mano che noi cerchiamo di raggiungerli, ossia ritenere che calcoli attuali abbiano risultati futuri, che ciò che oggi è passivo sarà attivo solo domani basta attendere. Chi viene accusato di ideologismo è in realtà molto più pragmatico di chi si pone in antitesi con quello stesso ideologismo che è poi quello che si realizza nelle loro stesse parole, l'illusione che la sola razionalità possa risolvere i problemi dimenticandosi che l'uomo è fatto non solo di ragione, ma pure di passioni e sentimenti, un'anima e un corpo.
Il fatto è che la soluzione è alla portata è vicina, rinunci ad un modello e ne crei un altro. Ma ciò è impossibile secondo i più, tale modello è insostituibile lo ricalco, e facendo così mi allontano sempre di più dalle esigenze di un mondo la cui Natura diviene sempre più artificiale e priva del suo antico splendore.  

venerdì 16 ottobre 2015







 Torniamo per un attimo a Hegel, mi interessa evidenziare la sua logica triadica, che lui poi applicò a varie importanti tematiche che fanno sempre parte del Mondo, dell'Uomo e della Società degli uomini: Tesi - Antitesi - Sintesi.
Se consideriamo un esempio tipico di comunità civile di uomini all'interno di uno Stato, non possiamo che distinguere tra il contesto privato in cui vive il cittadino, la famiglia, il lavoro, i parenti e amici, i rapporti di scambio sociale in denaro, ma pure in interessi, passioni, amicizie, e l'aspetto pubblico che è quella responsabilità civile del cittadino nel confronto delle leggi che deve osservare secondo quel patto, dacché l'uomo si è organizzato collettivamente mettendo a capo un Re, un tempo, oggi lo Stato, che è quel patto che impone al singolo di non farsi la guerra l'un l'altro, seguendo quelle regole autoimposte e il cui controllo viene affidato appunto a quelle autorità nazionali di cui sopra, unico modo per poter convivere pacificamente e non vivere in un ambito incivile in perenne guerra, (Hobbes). Insomma un cittadino a due facce, il citoyen e il burgois, direbbe Marx. Per Hegel, la famiglia privata non può non riconoscersi alla fine nello Stato proprio perché l'antitesi della famiglia, all'interno delle cerchie corporative lavorative e sociali, il tessuto privato, è il suo ruolo pubblico, tassello, filo di quella tela che è lo Stato, la burocrazia, cioè il risultato, la sintesi, l'autorealizzazione della famiglia, del privato nello Stato stesso. E questo indipendentemente da ogni possibile contraddizione che vi potrebbe essere all'interno di quella tela, tessuto metafora di quella che è una Nazione in cui i cittadini ben si riconoscono nella loro autorità impositiva del governo di uno Stato. Nella filosofia hegeliana la sua logica triadica è un divenire dove avviene la realizzazione dello Spirito Assoluto e pure la storia non sfugge a questa logica. Nell'opera hegeliana la "Fenomenologia dello Spirito", l'uomo è parte di questo processo sempre secondo un percorso triadico. Il servo (tesi), lavorando assiduamente per il padrone (antitesi), diverrà egli stesso in futuro padrone che però ha sintetizzato in sé pure quel che era stato, cioè servo (sintesi).






 Pure la storia la potremmo considerare sotto questo andamento triadico che in fondo, se ci pensiamo bene, è di matrice teologica. Il presente è la sintesi del passato che aspirando al presente che per lui era un possibile futuro, poi vi è giunto, un passato in potenza che aspirando ad un futuro lo sintetizza e lo raggiunge in quello che è divenuto un nuovo presente. Aristotele direbbe appunto un ente la cui trasformazione, cambiamento, mutazione passa dallo stato potenziale alla forma conseguita. Marx il quale si collocava dopo Hegel nella sinistra hegeliana, già contestava il fatto che le considerazioni di Hegel applicate alla sua opera "Lineamenti di filosofia del diritto", non tenevano conto che era sin troppo semplice appianare le mille contraddizioni di una società attraverso una logica triadica che vedeva l'individuo, la famiglia, sempre ben realizzati in una società, soprattutto nello Stato, ma in realtà quelle contraddizioni erano tutt'altro che appianabili. La povertà, il duro lavoro dei bambini nelle fabbriche, l'ingiustizia, erano elementi ben concreti che purtroppo nemmeno la filosofia hegeliana o comunque la filosofia in generale poteva appianare, in quanto astratta. Attraverso un capovolgimento della filosofia hegeliana per cui non bisogna partire dall'idea di Stato, ma piuttosto dalla società e come questa non sia altro che il prodotto degli uomini. La storia, gli avvenimenti, gli scambi economici dovuti a determinati tipi di produzione, ossia la struttura, poi determinano la sovrastruttura dei modelli economici, delle burocrazie che poi si attuano, e proprio per questo bisogna agire materialmente su questi rapporti di produzione economica se si vuole davvero raggiungere lo Stato idealizzato hegeliano dove il cittadino può riconoscersi democraticamente nel proprio Stato. Marx nella sua critica faceva riferimento allo stato prussiano, o a quello francese dove appunto le contraddizioni umane e sociali erano tutt'altro che risolte. Marx oltre che filosofo, si interessava di sociologia, economia. Egli riteneva che la filosofia avesse come lacuna il fare solo considerazioni astratte senza avere il coraggio di cambiare materialmente quella che era una società, quella dell'ottocento ormai industrializzata, dove il singolo, la famiglia, non erano per nulla realizzati nel contesto statale.
Il punto da cui partire era quello economico e nel "Capitale" Marx esprime tutte le sue perplessità.








 Marx accusò senza girarci troppo attorno il capitalismo in tutte le sue forme, mise in evidenza il concetto di plus-valore, di valore astratto, insomma di quell'accumulo di denaro, di quel tipo di economia capitalista, finanziaria che oggi per molti aspetti è sotto accusa, soprattutto dopo le bolle speculative americane che hanno messo in difficoltà l'Europa. Da sempre il dibattito, economico, politico, è stato se il sistema capitalista non stia arrivando al collasso, quali modelli economici innovativi bisognerebbe seguire soprattutto ora che ci si è resi conto che ci vuole sempre gente che acquista merci, altrimenti chi le produce si trova in una situazione di sovrapproduzione, vedi crisi del '29, in cui le aziende fallirono e la borsa crollò per eccessiva vendita azionaria. Allora si proposero modelli alternativi alle concezioni economiche classiche vedi l'economista Keynes, il quale metteva in evidenza che la circolazione di moneta tendeva per natura a diminuire, in quanto chi ne aveva in sovrabbondanza, non la spendeva tutta, ma l'accumulava, mentre altri, quelli più poveri alla fine ne disponevano sempre di meno. In pratica l'attuale sistema economico proprio per la sua stessa natura è un modello condannato ad esaurirsi col tempo, soprattutto dopo le rivoluzioni industriali in quanto ha sempre maggiori ritmi produttivi, con grande dispendio di energia e di macchine, ossia l'offerta produttiva è condannata a far sempre più fatica ad incrociarsi con una domanda sempre più esigua, soprattutto per la disoccupazione. La disoccupazione, elemento questo centrale nel dibattito politico, c'è chi dice oggi che con nuove riforme la disoccupazione diminuirà, ma il modello capitalista centrale resta sempre lo stesso e allora c'è da chiedersi: esiste un modello anticapitalista attuabile o no? Il marxismo nei suoi esperimenti sovietici, cubani, cinesi sono riusciti efficacemente a creare modelli economici alternativi o no? Potremmo per ore disquisire se il marxismo sia stato giusto o ingiusto, pacifico o sanguinario. Conosciamo le vicende storiche dell'Unione Sovietica, all'ombra dei Soviet i bolscevichi ebbero la meglio sui menscevichi e dopo il ritorno di Lenin in Russia, dopo la NEP, Nuova Politica Economica con la quale venne redistribuita la terra ai Kulaki, ossia quei contadini eredi di quei servi della gleba, che seppur affrancati da quella schiavitù dallo Zar Alessandro II nel 1861, erano comunque rimasti poveri e affamati e senza terra. La vera rivoluzione fu questa, solo che Stalin la volle poi allargare in ambito industriale. L'Unione Sovietica cui aspirava Stalin era uno stato industrialmente potente che vedeva però la deportazione di intere popolazioni, i gulag, e i "nemici del popolo", ossia coloro che cadevano in disgrazia e venivano cancellati persino
dalle fotografie.







Quindi oggi come possiamo interpretare una possibile dittatura del proletariato quando ci rendiamo ben conto che il proletariato non esiste più, si è estinto?
Eppure le industrie continuano a produrre solo che c'è meno bisogno di operai. Facendo un esempio abbiamo 20 fabbriche che producono un milione di prodotti che verranno consumati da 500.000 persone, e per far questo impiegano 20.000 operai. E' un esempio con numeri a caso. Le altre 480000 persone saranno lavoratori di altre aziende o fabbriche. Queste 500000 persone sono lavoratori, operai, ma pure acquirenti dei prodotti delle fabbriche. Oggi queste ultime sempre più automatizzate necessitano di sempre meno operai, sicché un numero crescente di essi si troveranno senza risorse e non compreranno quei prodotti. Le fabbriche si ritroveranno progressivamente in sovrapproduzione, vendendo meno licenzieranno ulteriormente allargando la forbice della disoccupazione. E comunque viene a crearsi una concorrenza spietata in tutto il mondo le aziende per vendere abbassano i prezzi e quindi cercano manodopera a basso costo che trovano in Cina, in India e in tutto il mondo, dove chiaramente non vi sono diritti sindacali. Ma nonostante che sia chiaro che tutto questo processo non è altro che un fiume la cui acqua inevitabilmente finirà nel gorgo dell'autoannullamento, in quanto mi sembra chiaro che tutto ciò non è altro che una rincorsa al ribasso dei prezzi e dei salari, e una crisi delle economie interne a stati occidentali come l'Italia che non riescono a realizzare un soddisfacente mercato interno, in quanto meno soldi ci sono, minore è la domanda e minore alla fine la produzione. Del resto è ovvio, si è passati dal fordismo degli anni '50, anni in cui molti lavoravano e spendevano e le fabbriche aggiungevano prodotti nei magazzini, ad oggi che in pieno toyotismo il magazzino non c'è più, la produzione ha cambiato forma. Vediamo quindi come la diversificazione della produzione, ha un impatto sociale che poi si traduce in termini politici. Nuove leggi, minor welfare, minori diritti per rincorrere l'onda del momento, l'onda che ci dice che non possiamo far altro che seguire il fiume per sparire poi in quel gorgo. E gli economisti si rompono il capo per far quadrare il cerchio. E' un po' come se ci si sforzi di descrivere un sistema eliocentrico mantenendo un modello geocentrico, tipo quello tolemaico.








 Ma allora ci possiamo chiedere, quale può essere la via di uscita, come uscire da un modello geocentrico che forse una volta, negli anni '50 poteva andar bene ma oggi è chiaramente alle corde, perché il mondo cambia, la tecnologia, l'immigrazione dovuta a guerre, cambiamenti climatici e tutti quegli intoppi causati da politiche frammentate in un mosaico di interessi diversi? C'è qualche filosofo che asserisce che le teorie marxiane non sono più applicabili in quanto seppur avevano evidenziato i limiti del capitalismo e come esso stesso si fosse trasformato in ideologia e tutta l'umanità non vedesse via d'uscita allo stesso capitalismo, che pur nella sua auto-contraddittorietà, sembrava un sistema economico insostituibile, anche Marx, pur con il suo materialismo storico, con la sua speranza di poter cambiare questo modello economico, era da consegnarsi all'ideologia. I sessantottini di un tempo, che poi alla fine restarono inorriditi dopo le primavere di Praga e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, ormai Marx per loro è solo un mito del passato. Vi sono filosofi che protestano e vorrebbero riesumare Marx, ma purtroppo si fa fatica, specie oggi che tutto è cambiato, la crisi dei valori, il nichilismo, l'individuo post-moderno la cui anima è ormai on-line. Proprio alla luce di tutte queste considerazioni vorrei esprimere una mia idea di quello che sta avvenendo, provando ragionandoci un po' sopra e alla luce delle considerazioni già fatte in interventi precedenti sul divenire del Mondo, dell'Uomo, e della Società, se è vero che l'uomo in potenza faccia fatica ad attuare nuovi modelli economici, se questo passaggio dalla potenza all'atto del nostro processo storico sia davvero bloccato dal Capitalismo e se davvero se ne può uscire o se ne siamo definitivamente prigionieri, o se è destino che in quanto la Terra gira, Capitalismo o anti-Capitalismo, alla fine le cose cambieranno comunque.
Precedentemente ho fatto l'esempio della logica triadica di Hegel, ma potrei portare pure l'esempio di Aristotele, la storia la possiamo vedere svilupparsi come eventi che si attueranno potenzialmente nel futuro e diverranno atti in altrettanti presenti. Quel che è cambiato in questi tempi è la velocità di questi cambiamenti e tutto ciò è direttamente proporzionale all'avanzamento tecnologico delle comunicazioni. Oggi si trasmette via Radar, su fibra ottica, doppini telefonici, impulsi elettrici. Un tempo questi impulsi davano analogicamente delle informazioni che oggi sono bit, ossia uni e zeri. Boole inventò la sua famosa algebra, la cosa curiosa è che l'algebra di Boole per molti versi trae spunto da Frege e la sua logica. Frege era un filosofo. Ciò che è logico in elettronica è true or false, vero o falso, uno o zero, 1 o 0. I bit non sono altro che uni o zeri che circolano nei microprocessori dei computer, poi modulati o demodulati passano attraverso i vari mezzi di trasmissione. L'uomo ha creato una sorta di pensiero globale artificiale, che attraverso software e hardware riesce a mettere in comunicazione dati pensieri, informazioni ad una velocità spaventosa. Peraltro asserire che dall'oggi al domani l'uomo possa fare a meno della propria tecnologia è un'assurdità, l'uomo primitivo, scoperta la selce e il fuoco non ne poteva fare più a meno. Però oggi la tecnologia ha un notevole impatto sulla velocità delle trasmissioni, sulla velocità di trasformazione, mutamento degli avvenimenti, sulla velocità della storia.
Prima si parlava di ente che da potenza si trasforma in atto. Oggi questa trasformazione avviene in una velocità che ha uno spazio temporale estremamente piccolo. Dalle potenze abbiamo subito atti, alla fine ci troviamo sempre in atto. La storia attuale è di atti, quindi seppur gli avvenimenti scorrono velocemente sembra di vivere in un continuo presente. In questo presente è minimamente impensabile poter cambiare un modello economico, per lo meno non non in termini marxisti, a meno che non intervengano crisi enormi, guerre, carestie, avvenimenti storici che per forza di cose non cambino in modo radicale ciò che avviene oggi.
Purtuttavia l'uomo alla fine non potrà che fare i conti con le contraddizioni dei suoi stili economici e produttivi. Il fatto è che Marx ha evidenziato la contraddittorietà del nostro sistema economico e pur demonizzando il cosiddetto "comunismo", comunque alla fine o l'umanità troverà accorgimenti per risolvere l'impatto sociale che certi modelli economici nel prossimo futuro avranno in misura sempre maggiore o in ogni caso la storia andrà avanti, le contraddizioni daranno i loro frutti in un ulteriore decadimento della civiltà umana e comunque come già scrivevo in altre righe, in altri miei scritti su questo blog, non si può fissare un'idea in eterno, la realtà muta comunque e si porta con sé ogni idea, in quanto se per davvero esistessero teoremi eterni, oggi non ci troveremmo al punto in cui siamo ma dovremmo discutere di ciò che gli uomini discutevano in epoca micenea, per fare un esempio, cioè di cose di cui l'umanità ha conservato solo il mito in quanto la storiografia è iniziata dopo, si parla appunto di epoche preistoriche. Del resto pure in epoche storiche un'economia spartana era molto differente da quella ateniese. 

lunedì 27 luglio 2015

 Tuttavia a questo punto ci sarebbe da pensare se aveva ragione Parmenide o Platone. Il primo asseriva che l'essere concepibile come quel "tutto che ci circonda" e di cui facciamo parte e che esiste, non può non esistere e quindi "non essere". Dire che "l'essere non è" è una contraddizione che però Platone risolve nel suo dialogo "Il Sofista". L'autore ad un certo punto scrive che l'Essere in un certo senso può non essere, ossia non può esistere che la Luna compaia e non compaia allo stesso tempo nel cielo, e questo è il principio fondamentale di ogni logica che si rispetti e su cui l'uomo ha costruito la propria impalcatura scientifica che è il tramite per cui l'uomo può prevedere effetti e conseguenze che anzi per via sperimentale ha imparato a creare lui stesso. Sì quindi l'uomo in una impalcatura metafisica ha proiettato nell'universo quei numeri, l'uno, la monade, l'unicità, il due, la molteplicità.
Quindi quando parliamo di ontologia e di enti facciamo riferimento a singoli aspetti di una realtà che si fonda però su di un sostrato, un essere di cui l'uomo non può percepire la vera portata e qui è da chiedersi se da questo punto di vista il mondo sia una rappresentazione (Schopenhauer) e sotto questa prospettiva non abbia una realtà in sé, un noumeno sconosciuto all'uomo (Kant). Un mondo solo a misura dell'uomo quindi? E cosa percepiamo della realtà, questa è davvero insondabile? Ma altri esseri viventi in questo universo, quali matematiche, quali leggi fisiche costituirebbero loro metafisiche, ulteriori apparenze che sempre tangono la realtà in sé, un essere comunque impercepibile all'uomo?
Quindi alla fine lo stesso problema si ripropone, da un lato ci siamo noi uomini con i nostri processi cognitivi, dall'altra parte c'è l'oggettualità del mondo che ci sta di fronte, e in mezzo resta l'interrogativo di cosa ancora ci sfugge di quel mondo, e ci sfugge ancora molto, allora allunghiamo i telescopi.
La molla insomma sembra essere l'inesauribile curiosità umana che non si accontenta di pensare ad un Dio a priori, ma si sforza di trovare risposte rimanendo in una dimensione intermedia, la matematica ci aiuta in questo e diviene un tramite tra noi e il mondo. I numeri, il calcolo, quella logica platonica che è riuscita a scalzare l'apparente illogicità dell'assunto parmenideo. L'essere può non essere e da ciò scaturiscono leggi che divengono verità e teoremi su cui l'uomo ha costruito quell'impalcatura che oggi l'aiuta a procedere il quel lungo e apparentemente infinito cammino che è la sua scienza.
Inoltre vi è pure uno sguardo ulteriore che possiamo dare al mondo, quello morale. Esistono le azioni del Mondo e quelle dell'uomo. Lassù nel cielo ad anni luce di distanza una intera galassia può collassare su sè stessa, innumerevoli mondi scomparire in un attimo, ed altri formarsi in tempi così dilatati per la nostra limitata concezione temporale che solo calcoli matematici possono misurare per interpretarne la durata. Ma quel che conta del ragionamento è che ad un tratto tutto scompare per tornare sotto altre forme, altri mondi. E vi sono pure le azioni umane. Noi per comodità distinguiamo tra bene e male. Ciò che è bene, come direbbe Kant è ciò che conviene all'uomo tutto sommato in quanto il male, pure da un punto di vista razionale implica caos, morte, disgrazia tragedia. La Tragedia appunto che vede l'Edipo ad un tratto capire, comprendere come erano andate tutte le cose, ma appunto per questo affondare nell'estremo dolore che è pure quello che katarticamente solleva gli spettatori di uno spettacolo tragico di un Sofocle o di un Euripide.
Allora ci potremmo chiedere se davvero il confine tra bene e male, sia dettato più dalla razionalità umana, rispetto alla globalità dell'essere in cui la stessa parola "male" non ha senso. Noi finalizziamo ogni nostra scelta al bene per noi, ed è giusto questo, giammai potremmo preferire il male al bene. Tuttavia uno sguardo a tutto questo solo da un punto di vista razionale non è sufficiente. L'uomo può armarsi di coraggio sostenere la sofferenza elaborando razionalmente ciò che è bene per lui, resistere, salvo poi inevitabilmente scivolare e cadere.
Se leggiamo la poesia "Veglia" di Giuseppe Ungaretti, tratta dalla raccolta l'"Allegria", scorgiamo queste parole: "Un'intera nottata buttato vicino
a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio...".
La Luna sembra indifferente di fronte alla morte, e al termine della poesia Ungaretti: "Non sono mai stato tanto attaccato alla vita.".







 La sofferenza fa parte della vita, ne è una parte inscindibile e quindi vi è qualcosa di più profondo di una semplice elaborazione razionale della sofferenza, aspetto celebrato pure da un "neo-stoicismo" che poi ha compreso tutti i suoi limiti. Ma vi è un qualcosa in più, la tragedia ci insegna, anche come pura rappresentazione artistica, che paradossalmente proprio nella sofferenza estrema, nell'estremo sacrificio l'uomo nel lampo di un attimo diviene parte partecipe consapevole di quel tutto che è la Natura, l'essere, il Mondo.
E qui tornando ad Hölderlin, vediamo come nel suo "Empedocle", avvenga proprio questo estremo sacrificio, l'uomo si getta nel vulcano e nell'estremo gesto avviene l'unione con il tutto dove il futuro diviene presente e il passato futuro.
Lo stesso Freud attraverso una rielaborazione della sofferenza del paziente vicino allo psicoanalista, attraverso una dolorosa presa di coscienza della propria sofferenza, sembra katarticamente uscire da quello stato di dolore in una compartecipazione con il tutto che lo pone su di un piano diverso, un piano difficile comunque da tollerare per l'uomo che oggi preferisce far sparire il problema attraverso costrutti razionali che se non eliminino per lo meno allontanino quella parola orrenda che è la "morte", difficile da elaborare anche per chi al termine della propria vita deve per forza elaborare.

Da tutto questo però nasce un problema cruciale, se la scienza fatta di leggi teoremi, costrutti matematici che si fanno formule fisiche che descrivono fenomeni naturali e servono all'uomo non solo per comprenderli ma pure per riprodurli, fanno parte o meno dell'essere, davvero esiste una metafisica separata da tutto il resto, un mondo dietro al mondo dove trovare verità certe?
Tornando a Giuseppe Ungaretti dalla sua raccolta di poesie "Porto Sepolto", che verrà racchiusa nella successiva "Allegria", il poeta è proprio colui che si getta nel profondo degli abissi, il quel porto sepolto di origine pre-alessandrina, di quell'Alessandria d'Egitto dove Ungaretti visse la sua infanzia e adolescenza.
In questo scavo nel profondo il poeta va laggiù in quel luogo irraggiungibile, infinito nella sua profondità che costituisce l'animo più intimo del poeta che dopo, come una Sibilla riversa il suo messaggio ovunque per l'umanità.
Ma pure lo scienziato, mentre cerca di verificare un'idea, attraverso ragionamenti induttivi cerca di capire se un dato esperimento dia come risultato effetti che magari si era immaginato precedentemente. Questo immaginare dello scienziato che assomiglia allo scavo poetico di cui prima, riposa nella sua intuizione che qui è da capire se faccia parte dell'aspetto prettamente sperimentale fatto di cause ed effetti; in fondo tutto ciò che ci circonda, l'ambiente, lo spazio è fatto di cause ed effetti che implicano il tempo e il moto per lo meno come noi lo pensiamo guardando l'orologio. La palla si sposta in un tempo che cambia due stati quello precedente e quello conseguente. Tutto questo costituisce la rappresentazione che noi abbiamo del mondo e che di solito è l'Intelletto ad elaborare attraverso le sensazioni. Ma l'intuizione fa parte dell'Intelletto, di questa concatenazione di cause ed effetti o sorge dal più profondo? Lo scienziato ha un'idea, per esempio, il "principio di relatività generale", ma poi deve dimostrare matematicamente che la sua teoria è vera. Lo scienziato raggiunge la verità sì, ma dopo averla immaginata. Vi è un qualcosa di ulteriore che non può scindersi dall'essere in quanto tale, e da ciò che costituisce l'anima diciamo così dello scienziato, non c'è materia senza forma, pensiero senza realtà.
Ma tutto questo ci porta a vedere la metafisica come un qualcosa di unito al tutto. Se noi cementifichiamo il mondo, lo trasformiamo, siamo sempre all'interno di esso, della Natura. Ciò che ci sembra sempre innaturale in realtà è naturale, solo che a noi fa male.
Se un giorno il mondo dovesse distruggersi per causa nostra, lo spazio eterno non farebbe una piega, solo per noi sarebbe un triste destino.
Quindi vediamo che ogni etica, ogni morale, non può perdere di vista l'uomo, in quanto è solo rispetto a noi stessi che possiamo compiere le nostre scelte, e non in confronto agli spazi siderali.
Tuttavia purtroppo la sete di conoscenza umana ha perso di vista l'uomo stesso. La bellezza perfetta del pensiero umano cede il posto alla volontà di costruire l'uomo dal pensiero artificiale perché meglio si adatta a quel tutto degli spazi del tutto infinito spazio siderale, in cui l'uomo in sé perisce, ma ciò perde importanza, perché l'uomo nuovo è artificiale e ben si adatta ad una scienza che purtroppo ha perso di vista l'uomo in quanto tale.

Questo purtroppo è secondo me il punto critico, non tanto la scienza deve lamentare l'oscurantismo del filosofo che protesta, ma il timore di quest'ultimo che ogni uomo e scienza umana che fa capo all'uomo appunto costituisca per lui un pericolo, in primis per la filosofia la quale purtroppo è sempre meno considerata e anzi la si vorrebbe ridotta a rango di scienza, ma non si è capito che le sta in realtà di fronte, scienza è solo una parola, il significato vero è per me ancora insondato, non basta una concatenazione di fatti sebbene continuamente valutati da un'equipe scientifica.

Durante la rivoluzione industriale precedente, un singolo uomo aveva un'idea e poi la sviluppava, vedi Volta, Nikola Tesla. Oggi invece tutto viene organizzato, c'è un gruppo di lavoro che porta avanti un progetto, c'è da chiedersi se non sia il progetto a portare avanti il gruppo di lavoro e il primo purtroppo non è frutto d'intuizione, ma di continuo perseguimento di una strada verso un obiettivo che però perde di significato e da questo punto di vista questa ricerca umana si insabbia. Ma queste ultime sono solo miei pensieri e che il lettore li prenda come tali.

Il pericolo insomma è che l'uomo perda di vista la propria capacità intuitiva e quindi pur essendo parte del tutto che costituisce l'Universo, alla fine se ne distacchi e quindi con ciò venga a confermarsi quello che pensava Hölderlin, man mano che l'uomo estende la sua conoscenza di tutto, perde di vista la conoscenza di sé e diviene ignoto a sé medesimo e per questo ha bisogno di un altro suo simile una proiezione di sé per lui perfetta che gli permetta di restare sintonizzato con un mondo che pian piano gli sfugge.




giovedì 22 agosto 2013

 Pensando a Schopenhauer che mi fa l'occhiolino dalla copertina di un libro, inizio a riflettere sul mondo in cui viviamo e a come lo pensiamo ed insieme a ciò, al più genuino significato dell'evoluzione della nostra vita a contatto con gli altri e con noi stessi.




 Un mondo purtroppo martoriato da un uomo che consuma non solo più di quello che egli stesso produce, ma pure in eccesso rispetto a ciò che questa povera Terra può offrire. Un mondo appunto che spesso ci figuriamo non solo per quel che appare, ma pure per quello che si accompagna alla nostra vita di viventi, forse un po' più progrediti rispetto ad altri, ma comunque sempre esseri umani con le proprie angosce e pensieri.
E così noi uomini viviamo spesso immaginandoci un mondo in cui gioire e vivere intensamente in una realtà che purtroppo rema sempre in senso contrario ricordandoci i doveri, il mondo esterno, gli altri. Un confronto continuo insomma in cui ci misuriamo con il prossimo e spesso sacrifichiamo individualità, sogni e proiezioni all'esterno di ciò che vorremmo fare e di come vorremmo godere di questa vita, ma che purtroppo la vita ci nega, la concatenazione di eventi esterni che ci ostacolano e ci impediscono di vedere al di là della cortina fumogena di un immobilismo generalizzato che attribuiamo ai difetti culturali della nostra società, alla politica, al fatto che non troviamo un angolino in cui riflettere e rilassarci a contatto con la Natura e con chi ci vuole bene e con cui scambiare i nostri pensieri, i nostri dubbi e le nostra valutazioni.
Questa vuole essere la premessa per delineare un terreno di confronto con eventuali commentatori su diverse direttrici:

1) Il mondo così com'è fisicamente parlando, senza indugiare certo nel cosmo, ma limitandolo per ora al nostro pianeta e le risorse naturali.

2) L'uomo, microcosmo in quell'altro macrocosmo, non solo fatto di membra e nemmeno di cervello, ma di pensiero, e sinora nessuno ha ancora capito come possa scaturire dal primo per immaginarsi il mondo come seconda istanza.

3) La società fatta di più uomini che si organizzano per convivere, fondano città, nazioni, scrivono leggi e su di esse costruiscono architetture governative su cui poggiare le loro aspirazioni democratiche e i loro sogni di civiltà future.

4)I dubbi che costantemente l'uomo nutre, ossia se tutto ciò che gli appare sia reale o nasconda qualcos'altro che ancora non può conoscere e che è consapevole che non conoscerà mai, la filosofia, la religione.


 Il primo punto quindi non può che riguardare il rapporto tra l'uomo e la Natura, come ad esempio una contrada di campagna, una zona montuosa, ma pure un giardino all'interno di antichi edifici, nel fazzoletto verde di casa sua, gli possano dare quella tranquillità d'animo, quella serenità che gli permette di potersi sentire in pace con sé stesso e con gli altri. A tal proposito mi vengono in mente certi giardini Orientali che già a suo tempo influenzarono un certo design inglese, scenografie queste ben diverse dal classico giardino prospettico all'italiana. I giardini cinesi o giapponesi, con i loro laghetti, i ruscelli, l'atmosfera irregolare e quasi selvatica della vegetazione, sembrano riportare l'uomo non tanto alla Natura ma a ciò che la contorna, all'infinitamente grande e piccola cornice che fa da confine al vuoto del tutto, quell'infinitamente piccolo o grande che da sempre ci sfugge, ma pure ci affascina, e intanto che ci concentriamo su di esso ci sentiamo in armonia con il mondo e per questo distaccati da quella materialità che sovente ci incatena e ci fa soffrire.

Il secondo punto riguarda l'uomo, il quale sforzandosi di esistere, vive nel morire giorno per giorno, nell'eterna esplicazione di un sé che diparte da ciò che vi è di più intimo, quell'essenza, quella volontà che sforzandosi di esistere, lo pensa, questo mondo, in un'incredibile unione di anima e corpo, proiettando sé stesso nel mondo stesso e interiorizzandolo. Oggi impigliati come siamo nella società tecnologica che ci sovrasta, resasi oramai un organismo quasi indipendente da noi stessi, automatica, robotica, in essa abbiamo esteso la nostra sensibilità, la nostra conoscenza tridimensionale, e se un tempo l'uomo greco immolava il defunto sulla pira in onore di déi nemmeno tanto lontani, che quasi emergevano dalla cima di un monte o dal cuore e dal silenzio di una foresta, ora che tutto ciò sembra svanito nel nulla mentre telescopi osservano corpi celesti lontani, l'ignoto è dentro di noi e probabilmente soffriamo molto per questo. Fatichiamo ad incontrare in cielo colui o coloro che un tempo davano significato all'esistenza e vi suppliamo con le nostre religioni.


Il terzo punto riguarda la società degli uomini, la loro politica, i loro scambi, ma non solo in denaro, ma di linguaggio, di significati, di cultura. In fondo la storia si dipana così. C'è stato chi ha asserito che la storia è frutto della produzione degli uomini, o chi al contrario si è immaginato noi uomini come piccoli esseri sulle spalle di giganti che già in parte quella storia l'avevano scritta per noi, a noi in questo caso non resterebbe che seguirne gli insegnamenti. Un uomo insomma costantemente in bilico tra ciò che gli è stato insegnato e che è divenuto faro, luce, idee direbbe Platone, da seguire, e chi al contrario quelle idee ha deciso di rifiutarle per costruirne di nuove. Un po' come i significati delle parole, possiamo dire la parola "pietra" e chiederci se ormai essa non sia nient'altro che un segno stabilito dalla stragrande maggioranza degli uomini per designare il ben conosciuto oggetto, o se un uomo vissuto in un lontano passato, vedendo quell'oggetto, avesse espresso qualcosa che poi con il tempo è venuto ad acquisire il suono di quella parola.
E se parliamo di società, di uomini, non possiamo che parlare della loro politica dei valori, dell'etica e come essi oggi vi si conducono, per esempio qui in Italia e come il linguaggio politico abbia attraversato e attraversi tutt'ora una fase critica che si riallaccia a quello che dicevo prima sui significati delle parole.




Il quarto è il classico dubbio filosofico che non è relativismo in quanto non si mette in discussione che delle verità esistano, ma piuttosto che possano esistere giudizi assoluti che un giorno non possano venire discussi e smontati. In fondo le più grandi scoperte scientifiche nel campo ad esempio della fisica come la relatività Einsteiniana, che comunque oggi ha riscontrato più che altro conferme, un giorno potrebbero venir superate, ma pure giudizi di natura politica, per cui un dato sistema economico è per esempio infallibile, ricordandoci che trattandosi pure in questo caso di un libero scambio di risorse tra uomini costantemente in contatto tra loro, uomini che odiano isolarsi e piuttosto amano collaborare, ebbene quei meccanismi non sono per nulla immutabili, pensiamo ad esempio al modo in cui la tecnologia si è da tempo inserita in tutto questo, alla virtualità del valore di scambio sempre più lontano da quello d'uso che un uomo antico riteneva vi fosse in una rudimentale picozza. Oggi quel valore viaggia a suon di bit al secondo e troppo spesso per scambiarlo non basterebbe il valore di tre dei nostri pianeti.

 Quindi riepilogando intendo parlare in questo blog di uomo-mondo-società e filosofia provando a mettere in luce un oggetto, una configurazione di pensiero partendo da diverse prospettive, cercando di dimostrare tra le altre cose come la Filosofia più che una scienza possa essere uno sguardo da ciò che tecnicamente, secondo il linguaggio filosofico, viene chiamato ente, e come in fondo ciascuno di questi enti alla fine diano la possibilità di uno sguardo ulteriore, uno sguardo che vorrebbe riportare al centro del mondo un uomo, è vero non più rinascimentale, ma riportarlo indietro dalla sconfinata ampiezza degli abissi siderali che contornano il nostro, di mondo, purtroppo non più al centro di quegli abissi.
Ma cosa possiamo intendere per Natura? Come può coglierla la nostra sensibilità e in che misura?
Kant, nella sua “Critica della capacità di giudizio”, parlava di sublime aritmetico e dinamico descrivendo come di fronte a certi fenomeni come uragani, tempeste marine, spettacolari nella loro maestosità terrificante, non potessero essere abbracciati sensibilmente dall'immaginazione, ponendo in un certo senso un limite alla capacità della sensibilità umana di comprendere queste manifestazioni naturali.




Eppure dopo l'illuminismo, che vedeva nella razionalità del pensiero che ancor oggi possiamo scorgere in taluni giardini di ville settecentesche, con le loro prospettive di linee e punti che di fatto ci parlano di astratte metafisiche; con il Romanticismo si è inteso oltrepassare questi limiti e in un certo senso dando spazio non solo alla razionalità, ma pure alle passioni umane superando quella che potremmo chiamare la separazione tra mente e corpo, yin e yang nella cultura Orientale.
Se per esempio osserviamo la figura del taijitu, vediamo come le due compagini non siano separate nettamente ma mostrino dei piccoli cerchietti che ne evidenziano una certa dinamicità.
Se pensiamo alla mente o al pensiero come quel vuoto che è all'interno di ogni atomo, tra nucleo ed elettrone, ma che pure universalmente sembra contenere tutto, ebbene ci accorgiamo come il rapporto tra queste due componenti non possa essere che l'una funzionale all'altra in una dialettica, in una dinamica che non solo spazialmente, ma pure temporalmente evidenzia una continua compenetrazione, per fare un esempio, il vuoto di un vaso non può che essere funzionale al suo riempimento, come il pieno al suo svuotamento.
Se prendiamo un'opera d'arte cinese, o un giardino, vediamo come l'estetica che ne deriva e che costituisce l'oggetto del nostro vedere, non possa che comportare, secondo quel tipo di filosofia Orientale, l'osservare non solo con la mente ma pure con il corpo.
Il vuoto non viene concepito come quel nulla da cui ha avuto origine il tutto, ma un qualcosa di inscindibile da tutto ciò che è pieno e come non possano essere considerabili né separatamente, né tanto meno staticamente.
La spontaneità di uno sguardo di questo tipo in un giardino giapponese, che fa dell'asimmetria il suo verbo, equilibra dinamicamente la mente e il corpo in un'armonia di veduta, che concentrandosi e non giudicando solo concettualmente il bello, lo interiorizza e ne gode pure corporalmente. Una visione antimetafisica, che in un certo senso non vuole cogliere un mondo fatto di bellezza ideale e astratta che possiamo considerare in un certo senso l'ombra del nostro mondo, un mondo dietro al mondo, ma un mondo reale di bellezza pragmatica da cogliere con tutto il nostro "sé", in un mondo unico quindi, di pieni e vuoti ma sempre di uno si tratta, l'uomo unito al suo stesso mondo.



 



 Quel che intendo dire è che soprattutto oggi ci troviamo di fronte ad un uomo che è stufo di vivere nella classica tridimensionalità cercando una dimensione ulteriore, quella della propria interiorità, e come costui si renda ormai sempre più conto di venire costantemente sacrificato alla razionalità di un'esteriorità, che nelle sue mire pretende di soppesare e misurare il mondo, di sostituirlo con una sorta di controfigura assolutamente artificiale, un po' come l'uomo sogna di riprodurre sé stesso, creare un uomo cyborg, un uomo robot e da figlio farsi padre e nuovo dio creatore.
Eppure oggi l'uomo sente sempre più lontana quella Natura, se è vero che la cultura, la religione, la filosofia Orientale, indiana, cinese o giapponese hanno compreso come l'uomo debba sforzarsi di ritrovare il proprio baricentro, un uomo quello Occidentale moderno che è sperso in quella che sempre più risulta essere la proiezione di un fenomeno esterno che come tale viene ad assumere la forma di un mondo ulteriore che vela l'angoscia umana.
Un uomo quello Occidentale che pensa di poter conoscere molte cose utilizzando oggetti di una tecnica non pensata e creata però da tutti gli uomini, ma comunque disponibile per chi se lo può permettere, ebbene l'uomo Occidentale odierno trova rifugio proprio in quella metafisica, in quel cielo davvero vuoto dove è venuta a relegarsi la sua anima, il proprio sé, del tutto disgiunto da un corpo che si è fatto meccanico.
Un uomo quindi che fatica a cogliere il nesso tra passioni e cervello tanto è teso a reprimerle quelle passioni.

E qui veniamo al terzo punto, come l'uomo incontra gli altri uomini, come si sono sviluppate le società e come l'uomo oggi intende la politica.
La civiltà umana ha plagiato la Natura, se un tempo molte cose risultavano essere ancora sconosciute all'uomo antico, configurazioni mentali e culturali che alimentavano il grande bacino dell'ignoto, dell'oscuro, del divino, e per certi versi questo serbatoio di miti, stimolava l'uomo greco a trovare rassicurazione nell'esattezza della misure , delle forme proporzionate in precisi rapporti geometrici di linee, contorni, di elementi architettonici, di templi, ricercando in quei canoni artistici rassicurazione, il mantenimento di un ordine conscio che era un piccolo passo per dominare il caos degli eventi, ciò che era oltre ed apparteneva alla sfera del divino.
Ma poi l'uomo ha desiderato conoscere anche troppo e quell'ignoto, che prima era fuori di lui, si è interiorizzato, l'uomo in quanto tale faticava sempre più a riconoscersi nell'alieno disumano che non era più la Natura antica, in quanto modellata, strutturata, misurata.
Quindi dando uno sguardo verso la civiltà umana lasciando sullo sfondo la Natura, vediamo come la prima abbia avuto sempre un approccio di tipo esplorativo nei confronti della seconda, un approccio di tipo mentale, concettuale, scientifico e tecnico con il risultato però di riuscire a trasformarla quella Natura. Questo sguardo però lo possiamo considerare sotto un'altra prospettiva, di tipo estetico, riscoprendo il piacere, il bello, l'amore, aspetti pure questi facenti parte dell'animo umano, una civiltà che nelle sue vicende storiche non si è fatta sedurre solo dalla pura conoscenza sensibile, ma pure dall'approccio empatico che ogni uomo sin da bambino viene ad avere nei confronti dell'ambiente circostante.
Già Freud si occupava nei suoi libri di come nella civiltà moderna vi sia oramai una costante repressione di molti istinti vitali che ci fanno rendere conto di come il nostro avvicinarci e rapportarci con gli altri non possa essere solo di tipo passivo ma pure attivo. Per esempio considerava il principio di morte, ossia il principio di realtà, quella sorta di senso del dovere che spinge l'uomo a lavorare, produrre, sacrificarsi e sottomettersi, aspetti questi significativi del nostro essere costantemente immersi nella razionalità urbana gerarchizzata nei suoi livelli sociali  e come la neo-psicanalisi americana, ossia la moderna psicanalisi, abbia avuto il demerito di trascurare questi risultati dell'opera freudiana evidenziandone piuttosto gli aspetti terapeutici tendenti a mediare e risolvere in un certo senso quella disparità nel tentativo di trovare conciliazione tra repressione da un lato e desiderio di realizzazione e promozione della propria personalità dall'altro, prediligendo gli aspetti più propriamente scientifici o comunque ortodossi specie nei confronti di altre discipline come la psichiatria.





 A tal proposito Herbert Marcuse nel suo libro “Eros e civiltà”, cercò al contrario di recuperare gli aspetti più propriamente filosofici e storici della psicoanalisi freudiana, evidenziandone non solo l'aspetto biologico, ma pure quello ancestrale, una sorta di ricordo collettivo che l'uomo da sempre mantiene in una sorta di memoria inconscia storica, un ricordo antico ma ancora vivo nella quotidiana lotta per la sopravvivenza, ad esempio noi tendiamo ad avvinghiarci ad una gerarchia sociale che ci da sicurezza attraverso l'ottenimento di conferme che ci fanno sentire inseriti in un dato contesto, salvo poi sentire pure l'indomabile istinto del piacere ossia il desiderio di sottrarci da quegli stessi legami sociali troppo stretti che ci costringono quotidianamente alle routine lavorativa, alla produttività, alla repressione in genere, chiedendoci se alla fine un domani non potremo liberarci da tutto questo. In fondo la tecnologia già da tempo avrebbe dovuto alleggerirci dalla fatica e alleviarci dalle incombenze, attraverso tutte quelle risorse che sono il risultato della scienza e della tecnica, ma allora come è possibile che nella cosiddetta civiltà del benessere l'uomo debba ancora reprimersi?
Qui Marcuse cerca di rimettere al centro l'uomo, non attraverso la conquista dei mezzi di produzione come direbbe un Marx, mantenendo la concezione del lavoro come necessità inevitabile di trasformazione della Natura, ma piuttosto di raggiungere un rapporto diverso con la Natura stessa dove l'uomo possa rincontrarvisi in una maniera finalmente più intima liberandosi dal giogo di quell'eterno masochistico principio di realtà, cioè del dovere, del lavoro, del sacrificio.






In Platone e precisamente nel “Simposio”, celebre dialogo del filosofo dell'antichità, dove i protagonisti, invitati a casa di Agatone, in occasione dei festeggiamenti per l'ultimo successo della rappresentazione tragica del padrone di casa, piuttosto di incedere nelle libagioni che già si protraevano dal giorno prima, decidono ciascuno di dare un contributo a turno attraverso un discorso in onore di Eros, nel tentativo di mettere a fuoco l'importanza di quel dio. Il medico Erissimaco per esempio tra le altre cose asserisce nel testo che:


“Eros è un dio grande e meraviglioso e si estende sia sulle cose umane sia su quelle divine” ( Platone, Il Simposio, 186b – 186c),


più avanti lo stesso continua:


“ Ora se è bello, come Pausania diceva poco fa, concedere i favori alle persone buone ed è brutto concederli alle persone intemperanti, così anche per i corpi, è bello e bisogna concedere i favori alle parti buone e sane di ciascuno di essi (e in questo consiste appunto la medicina), mentre è brutto concedere i favori alle parti cattive e malate, e ad esse bisogna non compiacere se si vuole essere veramente medico.” (186b – 186d). 


Poi Platone per bocca di Erissimaco continua:


“Infatti bisogna saper rendere amiche le parti che nel corpo sono più nemiche, far sì che si amino reciprocamente” (186d – 186e). Poi Platone aggiunge: “Dunque, l'arte della medicina, come ho detto è interamente governata da questo dio, e così anche la ginnastica e l'agricoltura. La musica (…) la musica si trova infatti nelle medesime condizioni di quelle arti, infatti Eraclito afferma che l'Uno in sé discorde, con sé medesimo s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira” (187 a – 187b).


Pausania, che era intervenuto prima di Erissimaco, aveva rilevato che esistono due tipi di amori diversi, quello disdicevole, in quanto orientato verso i mali costumi, vedi ad esempio gli amori strumentali, venduti, a pagamento eccetera, e dall'altra parte pure quelli divini, puri, l'amore disinteressato, muliebre. Al contrario Erissimaco dimostra come alla fine l'uno non possa che ricondursi all'altro, e lo sa bene il medico che seppur deve amare le parti sane del corpo e odiare quelle cattive, deve saper guarire l'ammalato sanando le cattive in un'armonia di organi corporei che devono saper convivere insieme aiutando l'ammalato nel processo di guarigione. Ma c'è di più, l'amore non è solo la molla che rende sano l'ammalato, ma è la spinta essenziale che governa tutte le arti, la ginnastica, l'agricoltura e la musica. E a tal riguardo Platone cita un frammento di Eraclito molto importante in cui si dice che la discordanza dell'Uno si accorda con sé medesimo come l'arco e la Lira. Cioè i due corni separati che costituiscono le estremità di un arco teso, sebbene tendano verso due direzioni affatto diverse tra loro, quando sono vincolate da una corda tesa, esse, divenute un unico inatteso strumento musicale, con una o più corde, come la Lira, che vibrando esprimono un'armonia ineguagliabile, da due elementi discordi torniamo all'Uno armonico, dal due all'Uno o meglio un Uno che sebbene contenga una molteplicità di fattori pure discordanti tra loro, alla fine sempre all'Uno si riconducono, quell'Uno che è l'essere che racchiude ogni cosa, pure noi stessi nel nostro continuo divenire e trasformarci ma sempre all'interno di una molteplicità che si fa Uno armonicamente, come tutti i contrari del resto, come la bontà, la cattiveria, la forza e la debolezza, la prodigalità e l'avarizia.


 Ho preso ad esempio questi segmenti del testo platonico per sottolineare come alla fine l'uomo stesso nella sua spinta che lo proietta continuamente fuori e dentro sé, nel conoscere, nel confrontarsi, nel sentirsi appagato o frustrato come ho riportato sopra attraverso gli scritti di Herbert Marcuse, di Sigmund Freud, come appunto in questo processo che è la vita in tutto il suo divenire in quel cosmo che è l'Universo in tutta la sua unicità e infinità, per lo meno ai nostri occhi di piccoli uomini, l'essere umano non possa che mettere tutto sé stesso cioè il proprio pensiero e la propria corporeità in un unicum di immaginazione, passioni e azioni, nell'amore infinito per la propria esistenza e l'esistenza degli altri, nella Natura e nel Mondo. Di conseguenza io ritengo che all'interno di quell'incredibile mistero che è la vita umana, non abbia significato la ricerca di una purezza solo concettuale, utilizzandola come metro di giudizio per misurare la propria vita all'interno del Mondo, ossia un incedere nel mare magnum della nostra esistenza avendo come bussola tutte quelle costellazioni in cielo che però raffigurano solo punti e linee, certo importantissimi strumenti scientifici, che furono oggetto di studio del grande Euclide, cioè la geometria la matematica, tuttavia noi non possiamo restare prigionieri di una dimensione quantizzata, misurata, i cui parametri, piuttosto che essere inseriti nella Natura del mondo dove non esistono triangoli perfetti, alla fine possono divenire sbarre di una scomoda prigione, di un uomo a cui non viene più riconosciuta la parte più emotiva, quel sé represso di cui parlava Freud, quell'eterno Principio di realtà che non ci lascia spazio e ci lascia inchiodati a quella quotidianità che pretende sempre la propria routine.
Del resto lo ha scritto pure Platone, e lo abbiamo letto, l'amore, Eros che possiamo riferire al Bello, ma pure al Buono, o al Giusto, o all'Esatto, o comunque alla nostra meta che sia noi, come gli animali e le piante, ma financo un elettrone che ruota attorno al suo nucleo, in fondo aspira all'Unione, all'immedesimazione, ad una empatia armonica che fa sì che il cosmo sia quel che sia, governato dalle sue leggi, come è legge l'amore che proviamo per noi e gli altri.




 Quindi ora giungiamo ad un punto cruciale di questa discussione dove è essenziale capire in che rapporto sia il pensiero con il corpo di chi lo pensa, e se è vero come scriveva Aristotele nel De Anima, che l'anima è atto, mentre il corpo è potenza, cioè l'anima è la forma del corpo che ha la vita in potenza, allora è interessante capire il significato di quelle parole, potenza e atto, e la loro relazione in Aristotele.
Quando Aristotele pensava alla materia che inesorabilmente si trasforma, o naturalmente o per mezzo delle mani dell'uomo, aveva in mente un sostrato considerabile come quella materia informe che, iniziando a mutare spinta da cause note o ignote contiene al suo interno già insite potenzialmente quelle avvisaglie che progressivamente diverranno configurazioni ulteriori, effetti che la faranno divenire altro rispetto a ciò che era prima, rispetto alla situazione primigenia, e questo o per la forma acquisita, o per il colore, aspetti che si imprimono nel nostro pensiero che come scriveva Aristotele è la nostra Anima, la nostra Psyché che era ed è pure oggi in grado di distinguere, comprendere. Quindi se vogliamo il problema di fondo può essere quello di capire in che relazione può essere la forma con la materia e la causa che l'ha prodotta con quell'effetto in vista di un fine, se pensiamo alla Natura ciò può dar luogo a molti dibattiti, ossia se le leggi umane della scienza Fisica che governa l'Universo, la sua traduzione matematica e razionale attraverso cui noi uomini cerchiamo di far coincidere l'idea di Mondo con ciò che riteniamo che il mondo sia di per sé, ossia come ad esempio lo potrebbe vedere, misurare, una entità esterna a noi sia spazialmente che temporalmente, una entità extraterrestre, o più semplicemente come lo vedevano i dinosauri o come lo vede un gatto, ossia se quelle leggi appartengano oggettivamente al mondo stesso o siano frutto di considerazioni soggettive che mai potranno aderire veramente con la realtà che di per sé, come direbbe Kant è inconoscibile. Quindi qui si parla di forme che poi, distinte dall'uomo che pensa quelle forme che nomina con attributi diversi, divengono nomi e qui c'è da chiedersi se esse e il pensiero stesso che li veicola possano essere originari e facenti parte dell'Universo indipendentemente dall'uomo, un pensiero preesistente, il pensiero del mondo che come possiamo intuire nella sua infinità non può che avere al suo capo come perfezione un dio se lo intendiamo come entità perfetta che quindi non può non esistere, una sorta di dimostrazione dell'esistenza di Dio.



Qui ora intendo citare un importante filosofo, Spinoza che studiò a lungo il testo sacro, la Bibbia, cercando di capire se il pensiero razionale umano possa esse compatibile con la spiritualità di un fedele che legge la Bibbia, distinguendo la superstizione dalla genuina parola di Dio da valutazioni cabalistiche estranee al reale contenuto spirituale del testo che nulla deve togliere alla razionalità umana, un tentativo insomma di sciogliere le apparenti contraddizioni tra ragione e fede, esse al contrario possono far parte di quell'unico attributo che è il pensiero nei confronti dell'essere di tutto il mondo, l'Universo.





Giordano Bruno ad esempio riprendendo la casualità che ogni corpo in moto riceve nel suo urtarsi e nel caso pure trasformarsi dando vita a nuovi effetti, forme che metamorfosi di precedenti fogge, magari di una stessa materia, in fondo intuì come non si potessero fare vere distinzioni, né tra sostrato e forma, né tra cause ed effetti.
Se noi consideriamo il mondo come un essere (ontologicamente) di cui più che la finitezza o infinitezza ci interessa la sua unicità in tutti i suoi attributi, compreso il pensiero in un incessante divenire, percepiremmo la storia, non solo umana, ma universale, come una sequenza di trasformazioni non finalizzate ad obiettivi prefissati o comunque rispetto a coordinate umane, ma l'evolversi di fenomeni che hanno un legame tra loro a livello assoluto, ossia ben al di sopra di ogni vicenda che ogni uomo, marziano venusiano che sia potrebbe mai considerare.





 Ci fu un poeta, Hölderlin che nella sua poesia rievocava questo forte legame tra il passato e il presente, il classicismo letterario, ma pure artistico greco che in epoca romantica sembrava definitivamente perduto, per lo meno per un Schiller o un Goethe, per il poeta e filosofo Hölderlin, non lo era affatto. Un passato che risorgeva dalle ceneri, come un'araba fenice nelle sue strofe poetiche, versi che parlavano di un incessante sorgere e tramontare della vita, della storia di un uomo, che attende, guarda un cielo vuoto in apparenza, ma pronto ad ospitare un nuovo pantheon celeste. Noi, il nostro Mondo, le generazioni umane periscono, ma nel farlo hanno già al loro interno i germi di una futura rinascita, come diceva Giordano Bruno, vi sono già le premesse per un nuovo sorgere, un nuovo domani. Da questo punto di vista, passato presente e futuro perdono di significato, il presente si condensa, il passato può ripresentarsi bucando trasversalmente la diagonale della storia, che in un certo senso Nietzsche già considerava come eterno ritorno di un presente sempre uguale, che però non sarebbe circolare, ma a spirale.
Ora ci si potrebbe chiedere il perché di simili iperboliche considerazioni, forse perché potrebbe sorgerci il sospetto che l'uomo compia le proprie azioni che si fanno storia nel corso del tempo avendo come stella polare astri ingannevoli, impalcature ideologiche in mondi metafisici e iperuranei, un mondo soggettivizzato dove il pensiero si distingue bene dalla storia, come l'anima dal corpo, in un certo senso è come se l'umanità si fosse costruita una rotaia e che per questo sia destino che essa verrà per sempre percorsa, che in fondo il progresso, l'evoluzione umana sia una retta sempre in ascesa e semmai ogni discesa non possa che essere interpretabile che come un degrado, un imbarbarimento, il passato non ritornerà mai, secondo questa visione, ci sarà solo un futuro che alla fine non potrà che contenere sempre gli stessi valori, una bussola in pratica che non può che segnare sempre il Nord. Al contrario invece, se consideriamo l'Universo come un Unicum di pensiero-mondo-Universo, trasformantesi incessantemente ma senza alcuna rotaia, senza alcuna idea che debba ostinatamente farci da stella polare, ci renderemmo conto che siamo noi a costruirci presente passato e futuro, e che possiamo cambiare tutto ciò in qualsiasi momento. In qualsiasi momento possiamo cambiare il nostro destino, in quanto non esistono destini, ma semmai avvenimenti a cui sappiamo di doverci adeguare, ma che sappiamo pure che si dovranno adeguare a noi. Un'equazione questa che incredibilmente può far risorgere il passato perché non esistono barriere insormontabili se non quelle che ci costruiamo artificialmente, le regole le costruzioni sociali a cui noi volontariamente ci assoggettiamo ma per consuetudine, in quanto vi sarebbero sempre le possibilità per cambiar strada. La politica se la costruiscono gli uomini, come le loro economie, non vi sono sistemi che alla fine non siano pure convenzioni, come quei nomi che diamo alle forme, ma che possiamo cambiare.







L'idea marxiana di materialismo storico, secondo me nasce dai suoi studi giovanili di Spinoza, alla luce di questa linea di pensiero confutò sia il materialismo di Feuerbach, sia l'idealismo di Hegel. Da questo punto di vista, in fondo lo stesso poeta di cui ho scritto sopra, Hölderlin, confutò Fichte, ritenendo che la consapevolezza del mondo che noi abbiamo, di ciò che è esterno, non possa avvenire per coscienza ed autocoscienza, un confronto dialettico che ha l'Uomo con il Mondo, simile per certi versi a quella di Hegel, ciò non è possibile perché la nostra coscienza del mondo risiede nel pensiero e da esso è impossibile arrivare alla materia per lo meno da un punto di vista logico, come del resto è vero l'opposto. Solo concependo un'unione a livello assoluto e superiore a noi e a qualunque essere vivente o meno possiamo trovare una giunzione tra due mondi sì estranei come il pensiero, l'anima e il mondo, Spinoza provò a dimostrare come ad esempio il pensiero possa essere considerato come attributo di quell'essere che è il Mondo nella sua opera l'”Etica”.






In fondo già sin dai tempi di Kant, il problema era conciliare l'empirismo con il razionalismo, ossia se gli effetti di una palla rimbalzante su di un panno verde siano da ascriversi a qualcosa facente parte della palla stessa e non esprimibile attraverso leggi che esulino da quell'evento fisico, o se le leggi matematiche siano da ascriversi a livello puramente astratto e come il cervello sia unito all'uomo solo tramite la sua ghiandola pineale come scrisse Descartes.




Se concepiamo il pensiero come qualcosa che sopravvive all'uomo stesso in fondo ne neghiamo la sua mortalità, le interpretazioni averroistiche di Aristotele furono condannate nelle dispute medievali a cui partecipava tra l'altro San Tommaso, da chi riteneva sacrilego semplicemente pensarlo, e se in fondo ipotizziamo due anime, una universale e una umana, il dilemma resta se quindi la seconda per questo sia mortale.
Ma all'assunto di un legame assoluto che trascende l'uomo stesso, la sua mente, allora tutto cambierebbe, l'uomo potrebbe divenire davvero artefice del proprio destino e riacquistare quel pragmatismo che senza ricorrere a rivoluzioni marxiane, ma semplicemente mettendo in atto sé stesso conscio che nulla è prima di sé o dopo di sé, allora davvero potrebbe cambiare tutto, perforare in un certo senso la Storia, passarci attraverso, quasi che quest'ultima sia come lo spazio curvo di Einsteiniana memoria, una velatezza che potrebbe incredibilmente svelarsi ai nostri occhi.